13 giugno 1910
Al Venerabile Clero e Diletto Popolo della Città e Diocesi.
Salute e Benedizione dal Signore
Si avvicina ormai il giorno in cui, permettendolo
E prova chiara di tutto questo è per me il fatto di essere stato chiamato a tanta altezza da una oscura e completamente ignorata campagna dove vivevo facendo il parroco in un remoto angolo della diocesi di Padova da ben dieci anni, dopo averne passati altrettanti in alta montagna in cura d’altra umile parrocchia: senza aver mai pur sognato né dignità né onori: senza meriti, senza titoli, senza altra speranza da quella in fuori di passare i miei ultimi anni fra questi cari contadini e morir fra loro, e riposare nel loro camposanto. Che se un giorno il Signore diede in mano a Mosè un’umile verga con cui dovea domar gli elementi, vincere il Faraone, governare il popolo eletto; se per dare un re ad Israele ispirò al Profeta di versar l’olio sul capo dell’umile pastorello che fu poi Davide; o se in mano a Sansone fece capitare una mascella d’asino che gli servì per disperdere l’esercito Filisteo assalitore; io nutro fiducia che egli voglia fare oggi altrettanto e compiere uno dei suoi prodigi servendosi di me ben più fragile di quella verga, più umile di quel pastorello, più ignobile di quella mascella.
Ne meno mi conforta l’idea d’essere mandato fra di Voi, o dilettissimi, da Colui che regge le sorti della Chiesa Universale, il Sommo Pontefice, Vicario di Gesù Cristo: duce supremo, fin dagli anni più teneri ho imparato a prestare il più profondo e sincero ossequio della mente e del cuore, la più illimitata ed incondizionata obbedienza; colonna e fondamento della nostra fede dinanzi a cui ogni credente, ogni Sacerdote, ogni Vescovo altro non deve essere che un soldato fedele, una lancia spezzata, senza volontà propria, per la vita e per la morte.
S’aggiungono a questi conforti quelli che mi vennero in modo così espansivo dalla massima parte dei Sacerdoti di questa illustre Diocesi di Città di Castello: così che fin dal giorno della mia nomina vidi affluire alla mia umil dimora lettere e telegrammi dalla Curia, dal Capitolo, dal Seminario, dal Clero urbano e foraneo con tali espressioni di affetto sincero da farmi subito desiderare d’essere fra Voi, con la certezza di trovarvi degli amici carissimi, dei collaboratori indefessi, dei santi Sacerdoti di null’altro desiderosi che di lavorare con il loro Vescovo alla salute delle anime.
Animato pertanto da così lusinghieri sentimenti, io vengo a Voi, o venerabili fratelli e figli desideratissimi, umile figlio del popolo, senz’altra grandezza che quella del Ministero di cui mi confesso indegno; senz’altra pretesa che quella del vostro affetto; senz’altro appoggio che l’aiuto di Dio e della vostra buona volontà. Vengo per sedere sulla Cattedra di S. Florido, implorando dalla sua intercessione la grazia d’essere un buon Vescovo; vengo nella patria di S. Veronica con la fiducia ch’essa mi aiuti nel disimpegno del mio arduo officio; vengo mettendomi fin d’ora sotto la tutela del Cuore amabilissimo di Gesù e sotto la protezione della Vergine Santa che in questa Diocesi riscuote tanta divozione. Le belle virtù e la santa memoria del defunto Pastore Aristide Golfieri mi saranno di sprone; il trionfo della Chiesa e la salute delle anime unico fine. Mio desiderio sarebbe di poter dire al Signore, nel dì della mia morte quello che disse Gesù benedetto: quos dedisti mihi, non perdidi ex eis quemquam1 (non ho perduto alcuno di coloro che mi desti).
E, mentre anelo al momento di stringervi al cuore In caritate Christi (nella Carità di Cristo), lasciate che io porga il mio primo saluto, a Voi, Reverendissimi Canonici di codesto amplissimo Capitolo, che come più alti in dignità, così mi sarete di più valido aiuto con l’illuminato vostro zelo, con il prudente consiglio, con l’opera indefessa. L’assicurazione d’affetto sincero che a nome vostro mi portò l’illustre rappresentante intervenuto alla mia Consacrazione, mi è pegno di quella unione strettissima che ci congiungerà nel santo desiderio del bene.
E subito dopo a chi può rivolgersi l’animo mio, se non a Voi, o amatissimi Parroci, che siete senza dubbio i miei validi cooperatori e confratelli principalissimi nel pastorale ministero? Sarei senza cuore, se pur sapendo fin d’ora quanto voi fate per la salute del gregge, non vi manifestassi la mia riconoscenza più viva, l’amore più sviscerato. Sì voi siete e sarete il mio gaudio, la mia corona. Ve lo assicuro fin d’ora, voi troverete nel Vescovo il padre, l’amico, il fratello; Voi verrete a me, io verrò a Voi: i nostri cuori batteranno all’unisono. Ci aiuteremo a vicenda: e se, come mi lusingo, mi onorerete della vostra confidenza; troverete in me un animo aperto che sarà per Voi di conforto, per me di gaudio ineffabile.
Forse potrà alcuno tra di voi chiedersi quale sarà la politica del nuovo Vescovo. Non affannatevi a cercarla: ve la dico subito: salvare le anime a qualunque costo. Quando si tratta di anime, non dire mai basta: giorno, notte, monte, città, campagna è tutt’uno; la nostra missione è questa: condur le anime a Cristo. I pericoli sono tanti, i nemici potenti, le difficoltà cresciute; ebbene, raddoppiamo lo zelo, non temiamo sacrifici, ed uniti con il cuore e con l’opera in Gesù Crocifisso, andiamo avanti. Guerra all’errore, amore agli erranti: nessuna tregua con il peccato, sempre in tenera ricerca del peccatore. I fanciulli, i poveri, gli operai, ecco la parte più importante della messe; beati noi se, venuta la sera di nostra vita, potremo mostrare al Padre di famiglia abbondanti manipoli. I nostri avversari ci calunniano, ci ingiuriano; la nostra risposta più bella sia una vita intemerata e tutta spesa per il bene dei nostri fratelli.
E quello che dico a voi, o Parroci, intendo dire anche a tutti i Sacerdoti della Diocesi, qualunque sia il loro officio e grado, perché per tutti una è la legge, eguale il fine: salvare le anime. Non emulazioni, non gare, ma la carità di Cristo ci deve unire in un solo affetto, e ci deve condurre ad un sol fine: cooperare con Gesù Cristo alla salute di tutti i credenti.
E se questo sarà lo spirito vostro, o carissimi e venerabili Sacerdoti, no non mancheranno di certo in mezzo alle popolazioni germi di vocazioni novelle; e vedremo in breve il caro Seminario rifiorire di Chierici che e per il numero e per lo spirito siano di conforto alla Chiesa in mezzo a tante prove.
Sì al Seminario vola adesso il mio pensiero: quel Seminario che deve preparare i futuri combattenti per le lotte incruente contro il vizio e contro l’errore. Esso è e sarà sempre il cuore del Vescovo: e se, come spero, non mi mancherà l’appoggio di tutti i buoni Sacerdoti e laici, mi sforzerò a farlo rifiorire in modo da emulare le sue glorie passate. E voi, o carissimi chierici, se corrisponderete alle cure dei vostri superiori amorosi che con tanto zelo si affaticano per crescervi degni del Santuario, arriverete felici alla meta sublime e, ministri veramente idonei e disciplinati, salverete voi stessi e le anime a voi affidate. Sentite, o carissimi, mi si stringe il cuore pensando al vostro numero così scarso; ma se dovesse entrare in Seminario anche un solo chierico il quale volesse salire al sacerdozio con altro fine da quello in fuori di sacrificarsi per la gloria di Gesù Cristo e della salute delle anime, mi chiamerei contento di chiudere quel caro recinto, e restare senza chierici affatto.
Né meno mi sta a cuore che sia conservata la purezza della Cattolica Dottrina, e ben mi auguro fin d’adesso di restare piuttosto senza Sacerdoti di quello che, ve ne siano di quelli, i quali sotto il pretesto di erudizione e di progresso negli studi, abbiano come che sia a favorire quell’insieme mostruoso di errori e di ribellione con tanta sollecitudine combattuto dal regnante Pontefice Pio X, e che appunto perché è contrario alle immutabili verità della rivelazione, ed alle tradizioni della Chiesa si arroga il nome di religione moderna.
Né minor conto invero faccio di voi, o persone religiose, che seguendo le massime della cristiana perfezione, con la preghiera, con l’esempio e con l’opera onorate
Ed ora il mio riverente ossequio vada a voi, o Magistrati, quanti siete nella Città e nella Diocesi che rappresentate l’autorità civile: io vi porto il tributo della mia venerazione e della mia sudditanza. Conscio che, qualunque sia il vostro officio, o di render giustizia, o di tutelar l’ordine, o di curare l’amministrazione; secondo l’espressione dell’Apostolo “non est potestas nisi a Deo”2 (non c’è autorità che non venga da Dio), nel nome di Dio, voi esercitate l’autorità: vi porgo, rispettoso, la mano, mentre che, pure in nome di Dio, vi chieggo di tutelare con l’esempio e con l’opera i diritti sacrosanti della religione, base d’ogni benessere civile.
Per ultimo la mia parola vada a tutti voi, quanti siete, o figli carissimi, ricchi e poveri, dotti ed indotti, padroni ed operai: ricevete tutti l’espressione sincera del mio paterno affetto. Tutti egualmente mi siete cari, perché tutti formate quella famiglia che Iddio mi volle affidata. Per tutti io vengo: né sarà mai che a danno degli altri io voglia alcuno preferire: ma secondo il mio debito, e, secondo le mie povere forze son pronto a sacrificarmi per il bene di ognuno.
Una lotta terribile lo so continuamente s’attizza in mezzo alla società da gente sconsigliata che solo dai torbidi e dalle rivolte si aspetta il miglioramento sociale ed economico: ma appunto perché contro la religione questa gente rivolge i suoi colpi, e sulle rovine della fede spera innalzare i suoi trofei: non solo non riuscirà ad ottenere i desiderati benefici, ma procurerà senza dubbio alla società umana rovine peggiori. Ma voi, o carissimi figli, guarderete alla religione come a bene supremo, e, confidando in quella Chiesa che, madre amorosissima, di null’altro si cura che del vostro vero interesse, seguendo i suoi indirizzi, otterrete anche materialmente quel giusto benessere che vi renderà meno disagiata la vita e contento il cuore. Sarà poi mia particolarissima cura il far scendere sopra di tutti quella parola di pace, che nel mentre ricorderà ai diseredati gli esempi di Gesù Cristo, intimerà agli abbienti il dovere di porgere al povero il cuore e la mano come a fratello.
Termino con lo scongiurarvi tutti, o Venerabili Fratelli e figli carissimi, a voler con abbondanza di preghiere e di gemiti supplicare lo Spirito Santo affinché copiosi diffonda i suoi doni sopra di me e sopra di voi. Sopra di me, perché possa con carità vera e zelo illuminato compiere il mio delicato ufficio: sopra di voi perché con animo ilare e pronto possiate meco lavorare con frutto alla diffusione del regno di Gesù Cristo. Assieme poi supplichiamo l’altissimo Iddio a volerci conservare stretti con il pensiero, con il cuore e con l’opera al Nocchiero supremo della mistica nave, al Vicario di Cristo, all’augusto Pontefice Pio X, perché in mezzo a tante amarezze egli possa trovare in noi il conforto di figli ossequienti e amorosi, che, senza sottintesi, con la mente e con l’opera siano uniti a Lui.
E promettendovi di ricordarvi ogni giorno al Signore nelle mie preghiere, in segno della mia benevolenza vi impartisco di cuore auspice d’ogni bene la mia prima Pastorale Benedizione.
Data a Padova, il 13 Giugno 1910
X CARLO Vescovo
1 Giovanni 17, 24
2 Paulus - Rom. 13, 1