Quinquagesima del 1923
Al venerando Clero della Città e Diocesi
salute e benedizione dal Signore.
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i accingo anche in quest’anno a compiere uno dei doveri sacri del mio altissimo ufficio, o carissimi fratelli miei Sacerdoti; e le faccio ben volentieri; perché è sempre dolce intrattenersi con coloro che hanno comuni con noi gli interessi, eguali le aspirazioni, simili le speranze ed i timori, unico il fine. Lo faccio anche più volentieri perché devo comunicarvi essere volontà del S. Padre, che ciascuno di voi abbia a commemorare nella propria Chiesa con un devoto triduo il terzo centenario dalla beata morte di quella singolare e santa figura di Sacerdote e di Vescovo che fu S. Francesco di Sales per farlo conoscere ai popoli alla vostra cura affidati, per prenderlo a modello nell’esercizio del nostro sublime ministero, per additarlo a modello di quanti a voce ed in iscritto difendono
Ed invero una delle cause della rilassatezza del Cristiano gregge nel servizio di Dio, dell’indebolimento della Fede, e del dilagare del vizio, si riscontra nella tiepidezza dello zelo dei ministri del Santuario, che ben poco compresi della necessità dell’apostolato e del sacrificio, si accontentano di fare appena ciò che è di stretto dovere e del resto “Quaerunt quae sua sunt magis quam quae Jesu Christi” (cercano le proprie cose più di quelle di Gesù Cristo). Trascurato in alcuni, trasandato in altri il ministero della predicazione; non coltivato a dovere e colla debita preparazione, il ministero del confessionale; promossa poco o niente la frequenza dei Sacramenti; niente, o poco meno, osservata la maestà dei Sacri Riti e delle Cerimonie; si allontanano, anziché incitare, i fedeli dalla pratica della vita Cristiana. Ambiscono alcuni piuttosto i pingui benefici che le cure laboriose; schivano altri più che possono gli imbarazzi e gli ostacoli, e sono più devoti del quieto vivere che dell’andare in cerca di anime. Passiamo poi sotto silenzio i cattivi esempi di qualche infelice, che, o per la sistematica opposizione ai voleri dei Superiori, o per la scorrettezza del vivere, lascia assai a dubitare se abbia ancor quella Fede, di cui veste le sacre divise.
Lo comprendo, questo mio linguaggio rattrista i buoni preti, che pur sono molti, e fa mormorare quei pochi cui riesce ostico, perché tocchi nella piaga e forse non troppo disposti a medicarla. Ma non sarò io quest’anno che prenderò le difese del mio parlare; lascerò che con la sua parola e meglio ancora con la sua opera mi difenda il Santo vescovo di Ginevra, di cui accennerò ciò che nel fare e nel dire può essere di rimprovero per alcuni, di eccitamento per altri, di ammaestramento per tutti.
Il tempo in cui viveva Francesco di Sales, non differiva molto dal nostro. La pseudo-riforma di Lutero e di Calvino non l’aveva preceduto che di poche decine d’anni: il libero esame e lo spirito di critica intorno all’insegnamento Cattolico era di moda allora, come lo è adesso, e si era tradotto in pratica coll’abbandono del Culto e delle sue manifestazioni sia nella vita famigliare, che nella sociale. Anche allora grande rilassatezza ne’ costumi, anche allora fazioni politiche e lotte sanguinose, anche allora derisa la pietà, sprezzato il Clero, inceppato in mille guise il ministero Sacerdotale. Il soffio di vita nuova aleggiava però in molti petti, e lo spirito di vera riforma iniziato poderosamente dal Concilio di Trento, aveva i suoi propugnatori in tanti campioni della Chiesa che col loro operare, sia individuale che apostolico, andavano intrecciandosi l’aureola dei Santi. Carlo Borromeo, Ignazio di Lojola, Filippo Neri, Gaetano Thiene, ed altri molti spargevano intorno vivissima luce di santità e di opere, a provare l’immensa vitalità della Chiesa, e la sua divina potenza rinnovatrice. In questa titanica lotta fra la verità e l’errore, fra l’eroismo della virtù e la depravazione, entrava in lizza il nostro Francesco, già maestro in rettorica e filosofia, addestrato alla ginnastica, all’equitazione, alla danza, alla scherma, addottorato in Teologia a Parigi, laureato in utroque Jure a Padova: ma più che tutto approfondito nella scienza dei Santi, nel proprio perfezionamento morale, e nella risoluzione di essere un ottimo Ecclesiastico. La dignità Sacerdotale in lui è frutto di lunga preparazione, di maturo esame, di lotte interne ed esterne veramente eroiche. La sua vocazione è provatissima: non è l’avarizia che lo spinge a farsi prete, che anzi per arrivarvi rinunzia a lucrosissimi impieghi già a lui assicurati preventivamente dal padre. Non l’ambizione, che per arrivarvi rifiuta un onore altissimo a lui offerto nel Senato di Chamery; non l’impossibilità di godere adeguatamente al suo stato, la vita del mondo, ché suo padre gli aveva già procurato un ottimo partito di matrimonio nobile e ricco nella figlia del suo amico Vegy. Ed è il nostro Santo tanto lontano dal cercare gli onori, che a sua insaputa il Vescovo ed il capitolo di Ginevra gli ottiene da Roma la nomina a Preposto, titolo ch’egli accetta soltanto per istrappare dal padre la licenza di farsi ordinare Sacerdote.
E quale sacrifizio non fu per lui ottenere tale licenza dal padre che ne ammalò a segno da far temere della sua salute? Ma egli superò ogni ostacolo, ed il 21 Dicembre 1593, celebrò con fervore di serafino la sua prima Messa, emettendo questo santo proposito: “Farò ogni momento della giornata la preparazione alla Messa dell’indomani, di guisa che domandandomi chi che sia: che fate voi ora? - io possa rispondere con serietà: - mi preparo a celebrare”.
E tale proposito mantenne per tutta la vita.
Decise di farsi tutto a tutti, per tutti condurre a Cristo; nel pulpito, nel confessionale, nella visita agli infermi spendeva la maggior parte della sua giornata. Quanto alla predicazione non sapeva rifiutarsi mai: in Cattedrale, nelle parrocchie, nelle chiesette delle Confraternite, era sempre lui che parlava al popolo: tanto che suo padre, rimproverandolo, gli diceva: “Tu adesso rendi così comune la predicazione, da non farsene più caso, e nessuno ha più stima di te”. Ma Francesco non cambiò metodo. Alle confessioni consacrava molte ore del mattino, e non di rado vi restava fino al mezzodì. Le sue particolari tenerezze erano per i peccatori più rozzi, cenciosi e stomacosi; e ne ricavava frutti così belli, che indusse il Vescovo a nominarlo Gran Penitenziere. Fece per suo conto un confessionale presso la porta della chiesa, ed a chi gli faceva osservare che il luogo era scomodo, rispose: “E’ però comodo per le pecorelle che tornano all’ovile”.
Lo zelo che divorava il nostro Santo per la salute delle anime era tale da fargli versare abbondantissime lagrime, ogni qualvolta le sapesse in pericolo: e non si risparmiava anche dai sacrifizi più grandi per salvarle. La prova più generosa del suo zelo, fu quando indirettamente il suo Vescovo gli fece intendere essere suo desiderio che egli tentasse la conversione dello Chiablese. Era questa regione dell’alta Savoja fin dal 1535 stata devastata dall’eresia Calvinistica: proibitovi il culto Cattolico, cacciati i Sacerdoti che non vollero apostatare, soppressi i religiosi, demolite le chiese, dati ai ministri protestanti i benefici parrocchiali. Solo dopo più di cinquant’anni, nel 1587, poté il Duca di Savoia, riavere quella regione, e ripristinarvi la libertà del culto Cattolico. Il Vescovo, pregato dal Duca, si affrettò a mandarvi un dotto e pio Sacerdote, di nome Bochut, in qualità di Missionario; ma le condizioni morali di quei miseri luoghi erano così disastrose, che del cattolicismo restava appena qualche traccia. Gli eretici in assoluta maggioranza insorsero, e con i soldati fatti venire da Berna e da Ginevra, assalirono la fortezza del Duca, la incendiarono e costrinsero il buon sacerdote che vi abitava, a fuggire in tutta fretta. Non si scoraggiò il santo Vescovo Granieri, e non volendo, per rispetto a suo padre, invitare esplicitamente per quella impresa il nostro Francesco, radunò il Capitolo ed i principali Sacerdoti della Diocesi, e parlò della necessità di quella missione. Nessuno dei presenti si sentiva il coraggio dopo l’insuccesso di Bochut, di ritentare la prova. Ma il nostro Santo si alza e dice: “Monsignore, se mi credete abile, e mi incaricate di codesta missione, io sono pronto: in verbo tuo laxabo rete” (sulla parola tua calerò la rete)1. Ed il Vescovo, che nulla bramava di meglio, ringraziandolo dell’offerta, gli affidò l’arduo incarico. Oh! Se tutti i sacerdoti avessero lo spirito e la generosità di questo Santo!
Francesco, vinte le riluttanze e le opposizioni di suo padre, che fra lagrime e singhiozzi tentava di dissuaderlo dall’impresa, accompagnato solo dal Canonico Luigi suo cugino, a piedi, senz’altra arma che
I ministri dell’eresia impressionati della nuova piega che prendevano le cose, mandano due sicari ad attentare la vita del Santo che affrontandoli colla dolcezza, li vince, e li fa cadere pentiti a suoi piedi. Francesco, anziché impaurirsi, affronta gli eretici in Tolone loro sede principale, e propone loro una pubblica disputa in contraddittorio. Quelli raccoltisi a sinedrio, dopo lungo dibattersi, decidono di far sapere al Santo che sarebbero venuti in numero straordinario; Francesco risponde che quanto più grande sarà il numero e tanto più bella riuscirà la disputa. Ma sul più bello, con vane scuse si ritirano dal combattimento e definitivamente si eclissano. Il Barone d’Avully, uno dei dotti Calvinisti, domanda d’avere colloqui col Santo, e ne resta conquiso e convertito. Il calvinista
Ma per il nostro Santo
La sua vita pastorale fu completamente spesa nelle opere di zelo. L’amore delle anime lo struggeva così, che una volta in tempo di carnevale, così scrisse alla Chantal: “Eccomi nel mio luttuoso tempo; per misero e detestabile ch’io sia, ho nondimeno il cuore immerso nel dolore, vedendo tante anime rilassarsi. In queste due ultime domeniche le comunioni qui sono diminuite di una metà, e ciò per le follie del mondo; Oh, quanto mi è ciò riuscito sensibile”! Spesse volte al pensiero dei peccatori che vivono lontani da Dio, non potea trattenersi dal piangere, e ritiravasi in cappella per dar libero sfogo alle lagrime, pensando alla sua cara Ginevra , da cui vedevasi bandito, ripeteva fra i singhiozzi al Signore: Da mihi animas; Coetera tolle tibi (Dà a me le anime; quindi per te tutto il resto)!
Al termine di una missione, in cui senza posa aveva confessato dì e notte, scriveva alla Chantal: “Oh quanto mi son consolato nel veder la conversione di tante anime! ... Qual contento fra gli altri nel veder un giovane gentiluomo di vent’anni rientrare nel grembo della chiesa, ed accusare santamente i suoi peccati !!! Io era fuori di me e quanti baci gli diedi mai”!
Tutta la sua vita fu un continuo sacrifizio di sé pel bene delle anime, a segno da sentirlo spesso ripetere che stimerebbesi felice di morirne per la conversione de’ peccatori. “Rinunzierei piuttosto a mille mitre e pastorali”, diceva, “di quello che lasciar di correre in traccia dei peccatori ...”.
Nei suoi viaggi scendeva talvolta da cavallo, per consolare e confessare in mezzo ai campi quelle povere persone che lo richiedevano. Animato dallo stesso zelo, andava volentieri ad assistere i condannati a morte, per aiutarli a ben morire; e sapeva empire i cuori di quelli infelici di una tale confidenza, che se ne videro molti andare al supplizio con giubilo e contento.
Fu parimenti il suo zelo per la santificazione dei suoi preti, che con tanti sinodi, tante costituzioni, tante raccomandazioni all’esatta osservanza dei sacri Canoni fece sì che il clero della sua Diocesi fosse tra i più edificanti del suo tempo. Fu parimenti il suo zelo che gli dettò tanti scritti per ammaestrare coloro che non udivano la sua parola; e che lo rese instancabile nel predicare dovunque andasse, quasi tutti i giorni, ed anche più volte al giorno, tanto che asserì egli stesso, poco prima di morire, di aver fatto più di quattromila prediche. Predicava con eguale impegno nelle campagne e nelle grandi città; ai poveri ed ai ricchi; anche se avesse pochissimo uditorio; ed era solito dire: “Né un grande uditorio mi anima, né un piccolo mi scoraggia, purché qualcuno ne resti edificato”. Scevro di ogni ricercatezza, parlava dal pulpito in maniera semplice e perfettamente apostolica, cercando il bene delle anime, e non gli applausi degli uomini. Predicando alla presenza degli eretici, non cercava di confonderli, ma di persuaderli, e metteva in luce la vera dottrina, senza mostrare di assalire l’eresia; e poi si rivolgeva al cuore, “perciocché, diceva, dopo trent’anni che predico, ho osservato che gli uomini si convertono pigliandoli pel cuore”. A queste condizioni per ben predicare, ne aggiungeva un’altra, la brevità. “I mediocri predicatori, diceva, piacciono se son brevi; ed i migliori stancano se son troppo prolissi”. Pari zelo dimostrò nel confessare, e vi impiegava tutto il tempo che gli altri suoi doveri gli lasciavano libero. Nelle Domeniche, e nei dì festivi, celebrava prestissimo, e, recatosi al confessionale, vi restava fino a che vi erano persone che volevano confessarsi. Moltissime volte, stando per porsi a tavola, veniva chiamato al confessionale, ed egli lasciava il pranzo per soddisfare i penitenti.
Conosceva a meraviglia il nostro Santo che nessun frutto si può sperare dalle opere di zelo, se non sono vivificate da una pietà ardente, e da umiltà profonda, ed a questo fine serbò sempre la massima fedeltà all’orazione. Ogni mattina vi spendeva per lo meno un’ora; tutte le sere recitando il Rosario, nella considerazione dei Misteri impiegava un’altra ora. Oltre a ciò tutti i momenti che fra il giorno gli restavan liberi, li dava alla meditazione, senza contare le ore di notte che toglieva al sonno, per intrattenersi a conversare con Dio. E questa unione con Signore gli era così famigliare, che una volta, parlando con un canonico di Annecy, gli scappò detto: “La misericordia di Dio a mio riguardo è incomprensibile, poiché tosto che mi metto a far orazione, mi dimentico di tutto, fuorché di Lui, e mi sembra di esser tutto suo”. “Oh quanto è eccellente l’orazione attiva” disse un giorno ad un suo amico, ed avendogli questi richiesto che cosa fosse, rispose: “Questa consiste nel far tutto alla presenza di Dio e per servirlo”. Anche oppresso dagli affari ed accerchiato da persone che volevano parlargli, se ne stava unito a Dio con frequenti elevazioni di mente e di cuore. Entrando nella sua stanza, lo si trovava sempre talmente attento a Dio ed alle cose celesti, che sembrava niun affare poternelo distrarre. Anche alla mensa o nelle conversazioni, non gli usciva mai parola dal labbro, che non fosse di Dio, e che non eccitasse all’amor divino. Temendo che il tumulto del mondo e le molte occupazioni dissipassero troppo il suo cuore, e cagionassero danno alla sua virtù, spendeva ogni anno dieci giorni in S. Spirituali Esercizi, per rassettare, come diceva, la povera anima tempestata dagli affari.
Lo spirito di fede lo guidava in tutte le sue opere; se incontrava qualche difficoltà, nulla faceva senza dare prima uno sguardo all’eternità. Non assecondava mai le proprie naturali inclinazioni, per non parlare e non operare che in vista del divino beneplacito; e da ciò proveniva in lui quella grande delicatezza di coscienza, che non avrebbe potuto soffrire in sé ciò che sapeva esser meno gradito agli occhi di Dio. Riguardava questa terra come luogo di esilio, ed aspirava con tutta l’anima verso i beni della vita futura; e con questa speranza dell’eternità consolava tutti coloro che piangevano la perdita di qualche loro caro.
Fu assalito più volte da terribili tentazioni, perché Iddio lo volle provare onde perfezionarlo nelle virtù, ma anche allora la confidenza in Dio lo rendeva pieno di coraggio. “Sono molto tormentato, egli scriveva alla Chantal, mi sembra di non aver forza alcuna a resistere, e che, se mi si presentasse l’occasione soccomberei; ma quanto più mi sento debole, tanto più ripongo la mia confidenza in Dio, e tengo per certo che col suo aiuto trionferò;” Ma dove più maravigliosamente risplendeva la sua fede era all’altare, e nelle varie funzioni del divin culto. Compiva le cerimonie con tal raccoglimento, gravità e decoro, che non si poteva osservarlo senza sentirsi ispirati a divozione. Confessavasi quasi ogni giorno, prima di celebrare; non sopportava le menome irriverenze nel luogo santo, e le riprendeva ora sul momento con un segno che imponeva silenzio e rispetto, ora con un paterno avviso, dato in sacristia o fuori di chiesa; e talvolta anche in pubblico, se il fallo era palese. Venerava la parola di Dio predicata, e riguardava come segno di predestinazione il desiderio di ascoltarla; e perciò si recava alle prediche, quanto più poteva; vi assisteva con somma attenzione, cogli occhi fissi sul predicatore, senza mai lasciarsi vincere dal sonno, o dalle distrazioni, né soffriva che poi se ne facessero critiche, dicendo che devesi onorare la parola di Dio, sotto qualunque forma venga presentata.
L’immenso amore ch’egli nutriva per Iddio trasfondevasi in una perfetta carità verso il prossimo, nel quale considerava ed amava Dio medesimo. Servirlo e soccorrerlo così nello spirito come nel corpo era il suo continuo esercizio. Fatiche, disagi, pericoli, erano un nulla per lui, quando trattavasi di giovare ai suoi simili; né mai fu veduto lasciar di fare agli altri tutto il bene che poteva, anche logorandosi la salute con eccessive fatiche. Né con minore carità trattava i nemici, dei quali non si vendicò, se non facendo ad essi tutto il bene possibile. “Bastava avergli recato qualche dispiacere, dice
Di una inesauribile pazienza, anche colle persone più noiose, ad un tale che lo biasimava, perché si intratteneva lungamente anche con donnicciuole del volgo che venivano ad importunarlo, disse il santo Prelato: “Contate dunque per nulla il lasciarle dir tutto? Hanno più bisogno di orecchie che le ascoltino, che di lingue che loro parlino! Nulla più piace ad un gran parlatore, che un paziente ascoltatore”.
E fu appunto per questa carità verso il prossimo che egli andava maturando un progetto, che se per varie circostanze non riuscì a lui, fu però raccolto ad eseguito a perfezione dal suo amico S. Vincenzo de’ Paoli. La istituzione delle Suore della Visitazione doveva essere secondo il suo concetto, un’opera di soccorso a tutte le miserie e a tutte le debolezze della umanità sofferente nello spirito e nel corpo; incominciando dalle educazione dei figli del popolo, e continuando fino all’assistenza degli ammalati e dei morenti. Dio volle ch’egli non riuscisse se non a fondare un istituto di clausura, ma ne’ suoi eterni decreti preparava in quello le inesauribili rivelazioni del Divin Cuore di Gesù, che furono poi fonte di così svariate opere di carità, che il mondo tutto n’è pieno.
Così visse il santo modello dei Sacerdoti e dei Pastori, e così morì: sulla breccia, come i soldati valorosi. Vent’anni di Episcopato spesi da quel campione di santità in un lavoro indefesso, instancabile, che abbracciò tutti i campi dell’apostolato, si chiusero, mentre egli stava ancora predicando, confessando, consigliando, sacrificandosi pel bene del prossimo. Aveva pensato a tutto: ai bambini della dottrina cristiana, a cui dedicò le prime cure pastorali; al clero a cui dedicò la penna, la parola, il cuore; al popolo a cui si donò senza risparmio; ai potenti che avvicinò per farli migliori, agli umili che trattò come fratelli; ai devoti che avviò per le vie della più alta perfezione; agli eretici che richiamò alla fede; ai peccatori che in grandissimo numero convertì a Dio.
Sfinito di forze, oppresso da dolori, per invito del Papa si reca a Pinerolo, per presiedere al Capitolo generale dei Cisterciensi. A chi lo consiglia di sottrarsi all’incarico per lo stato di sua salute risponde: “Bisogna obbedire, e giacché non ebbi l’onore di morir per la fede tra gli eretici, né per la carità tra i contagiosi, sarei felice di morire per l’obbedienza”. Era il Maggio 1622, quando adempì all’incarico, e dopo di aver predicato, confessato e tenuto le S. Ordinazioni, malgrado dolori acutissimi e lunghi deliqui, si fermò nel ritorno a Torino. Rifiutata l’ospitalità offertagli alla Corte, si accontentò di una celletta alla Consolata. Di là passò a Chieri, a Giaveno, e ripartì per
Possa, Venerabili Fratelli, il suo esempio essere di sprone a tutti noi nell’adempimento dei nostri sacerdotali doveri, nella santificazione della nostra vita, nell’ardore dello zelo! Eleggiamolo a nostra guida e maestro; e mentre, nel triduo ordinato dal Santo Padre, lo additiamo al popolo nostro, come modello di santità, mostriamo colle nostre opere di avere già incominciato ad imitarlo.
Vi benediciamo con effusione di cuore nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo.
Dalla Nostra Residenza, Quinquagesima del 1923.
X CARLO Vescovo
1 Luca 5, 5